NOvita' 2022
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Alcuni racconti
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Gino Benvenuti
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Gino Benvenuti
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UN RACCONTO E ALCUNE SCHEGGE
LA COSMESI
Saranno state all’incirca le tre del pomeriggio quando Sabrina, seduta in un bar con una amica ricevette una telefonata sul cellulare. Appena iniziò a parlare sbiancò in volto commentando con un “mamma mia non me lo aspettavo”. All’amica che colse, dalle parole della conversazione e dal volto contratto, una situazione di turbamento chiese di portarla immediatamente a casa per una questione imprevista. Nel congedarsi da lei, dopo averla ripetutamente ringraziata, le disse: -Mi farò viva quanto prima. Ora devo risolvere questa situazione-. -Di cosa si tratta? - domandò l’amica -ti posso aiutare? - insisté partecipe di questa situazione. -No; lascia fare. Te lo dirò domani. Ora mi devo rendere conto di quanto è successo- rispose lei chiudendo lo sportello della auto prima di iniziare, a passo veloce, a camminare nel vialetto di ingresso della sua abitazione. Appena entrata in casa sua madre l’avvertì che il padre era stato portato di urgenza all’ospedale e quindi, dato che lei non se l’era sentita di seguirlo in ambulanza, si doveva quanto prima recare all’ospedale per essere ragguagliata sulla situazione. Senza mettere tempo in mezzo e disdettando un impegno di lavoro, nel tardo pomeriggio, si catapultò immediatamente al pronto soccorso. All’ingresso fornì le generalità di suo padre ed apprese che era stato trasportato in sala operatoria per un inizio di infarto e quindi non restava che aspettare. -Cosa devo fare? - chiese la figlia. -Signora se suo padre è in sala operatoria ne avrà per un po’. Lei sa che prima di uscire dalla sala operatoria il paziente resta, una volta operato, a decantare quindi le consiglierei di andare a casa e tornare più tardi per avere notizie-. Rientrò quindi a casa e con tutte le cautele del caso, essa dette notizia dell’accaduto, ma ciò non bastò a tranquillizzare la madre che cominciò a piangere. Passato questo primo impatto le donne restarono in casa e quando ricevettero delle telefonate chiesero di essere richiamate l’indomani perché il telefono doveva al momento restare libero. Evitarono anche le domande connesse a questa affermazione e dopo cena Sabrina si recò all’ospedale per avere delle notizie. Convenne con un’infermiera che era stata presente all’operazione, di tornare il giorno seguente quando avrebbe smaltito gli effetti dell’anestesia e sarebbe stato ricoverato in terapia intensiva dove non poteva ricevere visite di estranei. Per risparmiare alla madre una palese sofferenza, si fece carico di questa incombenza riferendole puntualmente quale fosse la situazione. Quando vide il padre per la prima volta dopo l’operazione, egli dormiva a bocca aperta privo della dentiera e la sua maschera era orribile: capelli appiccicati, barba incolta, ecchimosi all’occhio sinistro, un labbro gonfio, il naso con un taglio vicino alle narici, un livido gonfiore sullo zigomo sinistro come postumi di una caduta, ed una candida benda sulla fronte dove nel mezzo compariva un puntino rosso di sangue. La figlia trasalì sbiancando e riuscì a farsi riconoscere quando il padre aprì gli occhi. Lui accennò ad un sorriso ma la figlia non ebbe alcun gesto affettuoso ancora sconvolta da questa visione. La visita fu brevissima per prescrizione sanitaria e quando lei tornò a casa esternò tutto il suo rammarico per come lo aveva trovato. -Ti consiglio di andare a fargli visita quando sarà riportato in corsia perché adesso ha un aspetto poco piacevole-. -Importante è che sia vivo. Se poi è in quelle condizioni si riprenderà. Speriamo che torni a casa guarito-. Con queste parole la madre recise qualsiasi colloquio successivo ma la figlia che non sapeva capacitarsi, quella sera non ebbe voglia di mangiare. In camera sua tolse da un cassetto delle foto del babbo quando era più giovane e si mise a guardarle a lungo; poi passò a quelle più recenti. Finita questa lunga carrellata mise mano al computer con l’intento di ricavare degli indirizzi di laboratori di cosmesi a cui cominciò a telefonare fin dal primo mattino. Il tipo di messaggio era sempre il solito: -Il vostro laboratorio effettua prestazioni a domicilio? -. -Sicuramente! Siamo in grado di fare qualsiasi intervento in qualsiasi situazione questo è il nostro motto-. A questa precisazione lei fornì all’impiegato recapito e mansioni precise: -Si tratta di effettuare una maschera completa per il volto quando sarà uscito dalla terapia intensiva-. Il titolare del laboratorio volle appurarsi se il familiare avesse avuto altri analoghi trattamenti. -No è la prima volta. Non ho mai pensato di sottoporre il babbo ad un simile trattamento anche se confesso ne avrebbe avuto bisogno-. Ragguagliato sull’età, sulla ubicazione dell’intervento e sulla fascia oraria entrambi fecero visita al malato e subito l’uomo, salutato il paziente, si rese conto delle pretesa assurda della figlia ma, per non perdere la cliente, inventò che sarebbe andato ad ispezionare l’ambiente per trovare un sito adatto mentre in realtà uscì subito dall’ospedale attendendola davanti all’ingresso. Dopo il saluto al padre, Sabrina si assentò un attimo dalla camera per parlare con il medico di turno e dopo tornò dal genitore. -Ciao babbo ti farò venire il parrucchiere però non dire niente agli infermieri né al dottore- gli disse in un orecchio prima di congedarsi. -Saluta la mamma- rispose l’uomo -e dille di non stare in pensiero-. Conclusa in dieci minuti la sua visita, fuori dall’ospedale l’estetista continuò la recita domandando a Sabrina quali fossero gli orari delle cure, dei pasti nonché la vista del dottore e per quanto tempo avrebbe dovuto tenere la flebo. -C’è il problema della flebo che è sempre attaccata; non si può fare- arzigogolò pur sapendo benissimo che era un vincolo insuperabile -però potrò venire a casa sua appena dimesso-. -Rimaniamo così: la avvertirò il giorno prima- concluse lei dandogli la mano. Oltretutto nel suo stato il lavoro non verrebbe bene- argomentò il visagista -sono comunque a sua disposizione signora; non si trovano facilmente persone così determinate- precisò soddisfatto di avere acquisito una cliente. Forte di questo impegno lei scelse di dire a quelle poche persone che telefonavano, per conoscere notizie su suo padre, di venire a casa quando sarebbe stato dimesso vincendo il rammarico della madre che non intendeva privare il marito di una gratificazione nel momento in cui ne aveva più bisogno. Il primo giorno utile, dopo le dimissioni dall’ospedale, l’addetto alla cosmesi arrivò la mattina molto presto. Dopo i saluti prese un caffè offerto dalla figlia ed appena bevuto si mise subito al lavoro. Capelli, barba, rimozione dei rigogliosi peli che spuntavano dal naso e dei brufoli, asportazione di alcuni calli, creme per la pulizia del viso, lapis per le sopracciglia, sbiancante per la dentiera ed infine massaggio al volto. Dopo tre ore di alacre lavoro con lo specchio in mano l’estetista esclamò entusiasta : -Si guardi! È ringiovanito di dieci anni! -. -Abbiamo fatto un buon lavoro cosa pensa? - domandò alla figlia. -Indubbiamente era ridotto molto male. Sicuramente è più bello di prima-. Subito chiamò la mamma che si meravigliò nel vedere il marito curato come un divo dello schermo. -Ti piace il babbo? -. -Sta meglio non c’è dubbio, ma a me piaceva anche com’era prima- osservò prima di abbracciarlo intensamente. La figlia si allontanò dalla stanza insieme all’addetto e pagò, salutandolo, quanto dovuto elargendo anche una piccola mancia. -Sono proprio contenta babbo; sembri un giovincello-. -Magari- rispose -ma ora lasciami con la mamma che è tanto che non l’abbraccio- proseguì chiamando a sé la moglie. -Ho fatto bene a chiamarti l’estetista; adesso chi verrà a trovarlo vedrà un altro babbo. Anzi ora che ci penso anche tu mamma dovresti farlo un trattamento-. -Ci sono altri problemi; lascia fare- glissò la madre. -Se avete bisogno sono di là- concluse la figlia. Cominciarono ad arrivare a casa delle persone amiche ed anch’esse notarono l’aspetto cambiato di Reginaldo soffermandosi più su questo fatto che non sulla malattia. La terapia di recupero si svolse nel rispetto dei tempi però una mattina all’alba di un Lunedì il padre accusò un lieve malore e Sabrina chiamò immediatamente l’ambulanza. Purtroppo una volta giunto in ospedale l’uomo morì e la figlia che lo aveva accompagnato si dovette informare per tutte le pratiche del caso e riempire i moduli previsti dopo che ebbe espresso il desiderio di riportare la salma a casa. Una volta ragguagliata in merito chiamò il solito estetista: -Ho un problema ma vorrei parlarne a voce-. -Di cosa si tratta? -. -Per telefono è difficile parlarne. Mi dia l’ubicazione del negozio e verrò da lei-. -Se viene entro mezzora l’aspetto-. -Corro immediatamente-. Dopo un quarto d’ora spiegata la sua richiesta lei tornò in ospedale per avere la conferma del giorno e dell’ora del trasporto del feretro al proprio domicilio. Al rientrò a casa ne dette notizia alla madre rimasta in compagnia di sua sorella accorsa immediatamente al momento della disgrazia. -La salma arriverà domani mattina intorno alle 9 però prima di mezzogiorno nessuno deve venire a rendergli omaggio. Bisogna sistemare la casa da cima a fondo. Giovedì mattina verrà tumulato al cimitero. Questi sono i tempi secondo quanto prevede la legge-. Quando la salma venne trasportata, dagli addetti alle pompe funebri, in salotto al momento del congedo essi comunicarono la data del commiato verso il cimitero. Subito dopo arrivò l’estetista che di buona lena riuscì a sistemare il defunto conferendogli un aspetto quasi sorridente, sicuramente diverso da quello che aveva avuto negli ultimi anni della sua vita e migliore del suo ultimo trattamento cosmetico. Come uscì l’estetista arrivò il fotografo per fare il suo “servizio” e solo dopo averlo giudicato dettagliato, fu permesso dalla figlia, a chi voleva rendere omaggio al defunto, di accedere in casa. Aveva molti amici e la processione durò diverse ore. Anche il giorno successivo ricevettero visite e soprattutto la vedova venne consolata dalle amiche che si permisero anche di portarle un presente perché in quel momento nessuno aveva provveduto a preparare pranzo e cena. Arrivò il momento della chiusura della bara, e le pompe funebri fecero allontanare tutti perché il sigillo non era uno spettacolo gradevole ma la moglie e la figlia chiesero di rimanere. La gente rimase sul marciapiede conversando tra loro e tra queste anche colleghe di Sabrina. -Ti rendi conto che cosa ha fatto la figlia? - disse una sua amica, battendosi il palmo della mano sulla fronte, ad una collega che era rimasta interdetta da quanto aveva visto. Prima che costei potesse rispondere rincalzò: -Ha scomodato l’estetista per fare un trattamento cosmetico al babbo morto. Roba da urlo-. -Hai proprio ragione. E il servizio fotografico allora? - aggiunse la collega di lavoro -e pensare che ci vediamo tutti i giorni e non sospettavo, ti giuro, una cosa simile-. -Avrebbe fatto meglio a non farlo sentire un peso quando era in vita. Una sera mi sono ritrovata a cena e ti farei sentire come si espresse nei suoi confronti- insisté Wilma un’amica di famiglia da lunga data. -Scusa ora che me ne hai accennato dimmela tutta la storia-. -Dato che lei prima di cena era ancora in piedi mentre il babbo stava cenando, lui le chiese se gli poteva portare un medicinale. Per tutta risposta Sabrina cominciò ad infamarlo: “peso morto”, “rompi sempre i coglioni” ed alle sue rimostranze gli augurò anche la morte. Te lo giuro ero presente e furtivamente chiamai mia madre, per farmi richiamare al cellulare, e con una scusa tornai a casa con il magone- spiegò Wilma. -Lo vuoi sapere il mio parere. Io l’ho trovato sempre molto trascurato quando poteva camminare ed usciva con la moglie. Ti ricordi che c’era un periodo d’estate che ci frequentavamo? -. -Sì me lo ricordo-. -È un paradosso ma è meglio da morto che da vivo. Addirittura sembrava sereno, sorridente e senza macchie in volto. Tutto è spettacolo cara mia; anche la morte- commentò Wilma che andò via salutando la vedova e non Sabrina.
FINANZA CREATIVA
-Caro mio oggi non c’è più bisogno di avere tanti operai per diventare ricchi...possiamo diventarlo senza tante beghe e senza quella pletora di sciagurati che vengono a lavorare. Oggi c’è la finanza creativa! Lo sai quanto ho guadagnato in un mese investendo un milione di euro? - disse un ex-industriale convertitosi alla finanza mentre si sorbiva un aperitivo spaparanzato sotto un ombrellone in una spiaggia esotica dalla sabbia cristallina. -Quanto? - domandò il suo amico commerciante bramoso di apprendere questo espediente come uno che vuole apprendere su un nuovo e miracoloso farmaco. Egli si avvicinò all’amico e gli confessò la cifra in un orecchio. -Nooooo! Mamma mia; incredibile-. -Non fai un cazzo, con il computer ed un software puoi andare a girare per il mondo mandando ordini di compravendita ed il risultato eccolo qua-. -Non ci ho mai pensato prima di adesso, te lo confesso- rispose sbalordito l’amico. Al momento il suggerimento rimase sospeso però la sera a cena l’ex-industriale ritornò sull’argomento: -Allora ti sei deciso? A te come a me interessano i soldi ed allora che tu li guadagni con un’azienda con mille problemi o che tu li ricavi dalla finanza che differenza fa? Sono sempre soldi ed inoltre a chi fa il moralista posso dire che il guadagno è tassato alla fonte a differenza di quello di molti capitani di industria che hanno scorte di “nero” o magari prendono contributi dalla Stato per delocalizzare, mettono su tre o quattro capannoni fatiscenti, iniziano un’attività fittizia poi mollano tutto lasciando gli operai nella disperazione. Pensaci e magari ti darò dei nominativi giusti. È il momento di noi creativi- affermò spavaldo - e intanto stasera ricordati che andiamo alla festa dove non ci mancherà niente e ti presenterò uno che ci sa fare-.
NON NE POSSO PIÙ
Tutti giorni Ivo percorreva lo stesso itinerario per andare al lavoro mettendosi in cammino intorno alle sette per prendere due autobus di cui il primo lo portava fino alla fermata della metropolitana Una mattina seduto proprio vicino ad un video che sfornava in continuazione immagini pubblicitarie si mise a fare un conto approssimativo calcolando con il suo cellulare quanti messaggi venivano promossi in mezzora. Tornato a casa dal lavoro, dopo aver fatto una verifica nel tragitto di ritorno, salutò appena e si portò subito in salotto. Lì, una volta seduto, prese carta e penna e cominciò a sommare e moltiplicare con il suo cellulare numeri su numeri prima di trascriverli su un foglio. -Cosa fai? - chiese la moglie alle sue spalle dando un’occhiata a ciò che trascriveva. Lui senza risponderle dopo una pausa rettificò i suoi dati e prima di alzarsi li tolse dal tavolo. Inascoltata la donna sbiancò gridando: -Mamma mia ma cosa pensi di spendere questi soldi. Mi vuoi rispondere? -. -Macché soldi sono i numeri della pubblicità che io mi debbo sorbire in due ore tra andata e ritorno al lavoro tra manifesti, messaggi video sull’autobus e sul giornale. -Non li guardare-. -Non posso viaggiare ad occhi chiusi-. -Allora leggi il giornale quando viaggi-. -Anche lì messaggi pubblicitari a josa. Dimenticavo la sera dopocena ci sono anche quelli trasmessi su qualsiasi spettacolo alla televisione; non se ne può più. Io che mi faccio due ore al giorno tra andata e ritorno mi vedo tra autobus, metropolitana e manifesti più o meno grandi sui tabelloni pubblicitari in strada, circa 200 messaggi al giorno per circa 300 giorni lavorativi arrivo a quasi 60000 messaggi l’anno-. -A me danno noia solo quando interrompono il film- argomentò la moglie rinfrancata e sorridente. -Forse bisognerebbe informarsi e comprare prodotti che non fanno pubblicità che sicuramente costano meno, ma purtroppo non è così-.
IL PRIMO GIORNO DI PENSIONE
C’è stato un periodo dopo la pensione nel quale Timoteo non riusciva ad adattarsi alla nuova dimensione. È strano come uno desideri di andare in pensione, faccia tanti progetti e quando giunga a quella meta tanto agognata non riesca a concretizzarli avviluppato in una paura che paralizza. Il primo giorno che fu in pensione, sì svegliò alla solita ora, fece colazione al stesso bar e poi si incamminò consultando l’orologio. Quando vide che mancavano due minuti alle otto accelerò il passo. Una volta dentro l’edificio il custode lo salutò dicendogli “ma lei non è già in pensione?”. In un attimo si sentì come scosso ed arrestandosi con prontezza di spirito rispose: -Devo aver lasciato qualcosa in un cassetto-. -Vado io a prenderlo se mi dice cosa- propose gentilmente il custode. -È una rubrica in pelle marrone- descrisse immaginandone una che aveva sempre desiderato di avere con tanto di pendaglio di stoffa gialla che fungeva da segnalibro. Il custode si mosse subito celermente e lui rimase nell’atrio ma nel frattempo arrivarono due colleghi che stupiti lo salutarono salvo poi ridacchiare, mentre si allontanavano da lui. Timoteo a quel punto decise di attendere sul marciapiede ed il custode di ritorno dalla sua ispezione, non vedendolo nell’atrio, pensò bene di rifugiarsi al calduccio nel suo sgabuzzino mentre lui rimase fuori ancora per una mezzora.
Gino Benvenuti
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Gino Benvenuti
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due racconti
L’Efebo
Si narra che, in un tempo molto remoto, un adolescente dalle sembianze efebiche, sia apparso in una delle tante vallate toscane custodi di segreti terribili e storie affascinanti e, nel mezzo di una cruentissima battaglia tra Guelfi e Ghibellini, ad un certo punto sotto un sole smagliante, estraesse uno strumento, per l’esattezza uno zufolo, e noncurante dei terribili corpo a corpo, si ponesse in cima a un gigantesco tiglio in fiore che emanava un profumo inebriante e da lì, tutto nudo, cominciasse a diffondere nella valle circostante una melodia dal suono talmente incantevole che attrasse chi era vicino a lui e, man mano che il tono della musica saliva, alcuni combattenti seduti in mezzo ai girasoli ardenti, si mettessero ad ascoltare la musica mentre addirittura sui volti dei guerrieri corse anche qualche lacrima e qualcuno scagliasse lontano le armi fino a che, all’imbrunire, il giovane efebo stremato dallo sforzo, fosse costretto a fermarsi ed i combattimenti alla luce delle torce riprendessero violentissimi, tant’è vero che la mattina seguente, quando i raggi del sole cominciarono ad asciugare la rugiada, l’efebo al suo risveglio vide molti cadaveri sparsi sul terreno e perciò decidendo di scendere dall’albero con lo stesso strumento e provasse a suonare cercando di dissuadere i miliziani dai loro propositi belluini, ma costoro, vedendolo, questa volta girassero gli archi verso di lui ed un nugolo di frecce lo infilzasse, inchiodandolo all’albero, per cui morì senza un gemito mentre lo zufolo cadendo per terra prima che un guerriero potesse afferrarlo, si trasformasse in un serpente per cui lo sfortunato, non facendo in tempo ad accorgersi del sortilegio, venisse stritolato senza gemere ed ignorato dalle milizie stremate intente a darsi gli ultimi crudeli fendenti mentre uno stormo impressionante di corvi famelici, appollaiati sulle frecce, vegliasse a lungo sulla salma dell’efebo perché nessuno pensò di dargli degna sepoltura.
Giugno 1995
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Primo Maggio 2038
Tutto è pronto per una grande e singolare festa alla quale sono state invitate alcune autorità politiche ed istituzionali, che hanno già da tempo confermato la loro presenza insieme alla partecipazione di rappresentanti sindacali di alcune categorie e di esponenti del mondo dell’impresa.
Da giorni e giorni, con un ritmo incessante, una grande emittente nazionale passa, con una frequenza sbalorditiva, lo stesso spot: pensionamento dell’ultimo operaio metalmeccanico in una fabbrica sopra i 15 dipendenti.
In uno scenario da tutto esaurito, nel grande teatro preso in affitto per l’occasione ed addobbato con festoni, ad ogni categoria è attribuito un palco da cui pende uno striscione. Musica, lancio di coriandoli, sventolio di mani e di bandierine in un frenetico scambio di saluti e pacche sulle spalle e tanti, tanti robot in piedi ai lati del teatro.
Il tavolo, al centro del proscenio, è rigorosamente calibrato nelle presenze con il sindaco al centro e da una parte il festeggiato Alvaro, il massimo rappresentante del mondo del lavoro e quello di categoria, mentre dall’altra il rappresentante della Confindustria, degli Enti locali ed un rappresentante governativo.
Il sindaco, con la fascia tricolore, si avvicina al microfono, invitando i presenti all’attenzione ed a prendere i rispettivi posti assegnati. Il clamore si smorza, la musica cessa, come anche il leggero brusio e finalmente le sue parole sono chiaramente percepite da tutti. Estrae di tasca un foglio, lo appoggia sul leggio, si aggiusta la cuffia con l’auricolare, tara il microfono ed inizia puntualissimo a parlare.
-Dirò solo poche parole lasciando dopo la parola al signore Alvaro perché mi sento in dovere di ringraziare tutti i presenti, le autorità politiche ed istituzionali nonché lo sponsor mediatico che ha permesso la realizzazione di questo storico evento. Dopo decenni e decenni di storia, carica di gloria e di lotte esaltanti, conquiste e deprimenti sconfitte, fonte di aspettative e delusioni cocenti, di gioie ed illusioni, la categoria dei metalmeccanici celebra un evento: oggi, Primo Maggio 2038, va in pensione alla età di 70 anni l’ultimo esponente di questa categoria in un’azienda sopra quindici dipendenti. Cari signori, chi di voi, pur vivendo nell’epoca della cibernetica, avrebbe predetto una fine così repentina del contributo biologicamente umano nel lavoro?- e qui si ferma per bere un sorso di acqua.
-Ho detto appunto biologicamente umano perché abbiamo adesso la quinta generazione degli human-robot, in grado di svolgere contemporaneamente 26 funzioni diverse, con una percentuale di errore vicino ad un milionesimo. Ma oltre a questo dato che riguarda la qualità del lavoro non vi sembra che essi siano più affidabili perché non protestano mai? Sono anni che non si sciopera nella fabbrica del signor Alvaro perché ormai da anni la maggioranza è costituita da robot. Non solo; ormai i bioumani da decenni sono una minoranza numerica ed in via di estinzione- .
Si levano alcuni fischi e lui con la mano chiede di farlo terminare:
-Questo è un dato quantitativo e costituisce una netta inversione rispetto al secolo scorso. Sei mesi or sono quando un collega del nostro, qui presente, festeggiato, osò ribellarsi alla tabella della produzione, il robot responsabile della linea bloccò il rifornimento dei pezzi costringendolo a segnalare il ritardo- .
Il sindaco ammicca spesso ad Alvaro, ma lui tace, trattiene un colpo di tosse e non riuscendo a contraccambiare lo sguardo, visibilmente contrariato, con impazienza aspetta di salire sul palco non soddisfatto da certe affermazioni.
-Le macchine ormai hanno di fatto sostituito l’uomo. L’età media di vita che è salita a 86 anni, 3 mesi e 12 giorni, come ha rilevato l’istituto di statistica in questi giorni, permetterà a quest’uomo di usufruire di tempo libero, di una pensione e dedicarsi ad una attività libera ed in questo senso è un privilegiato perché lui disporrà di tempo e soprattutto, questa singolare coincidenza gli ha permesso di sfruttarne i diritti televisivi e potrà contare anche su un discreto gruzzoletto; adesso io lascio la parola al signor Alvaro- .
Il sindaco che con il suo discorso non ha convinto tutti, ritorna a tratti applaudito al centro del tavolo e prima che Alvaro inizi a parlare, con celerità, dà lettura di una serie di telegrammi di saluti, congratulazioni ed adesioni anche di chi non ha potuto esserci.
Alvaro dopo aver preso per l’occasione degli appunti, come richiesto da chi ha sponsorizzato questa cerimonia, indossa una tuta blu tirata fuori da un vecchio armadio e sul cui taschino di sinistra è ricamato in bianco il suo nome e cognome.
Mostra un certo impaccio nel muoversi e tossendo ripetutamente, perplesso, beve qualche sorso d’acqua mentre in sala c’è un silenzio assoluto.
-Buongiorno a tutti- dice esordendo con difficoltà.
Si ferma, beve ancora e liberando un gran respiro riprende a parlare:
-Mi dovete scusare, ma io non sono più abituato a parlare al chiuso. Dico subito che sono semplicemente allibito dalle dichiarazioni del sindaco, ma non voglio adesso parlare di lui bensì della mia esperienza. Sono entrato in una grande fabbrica con circa 500 operai ed operaie nel 1988, appena diplomato- .
Commosso ha una pausa.
-Nel corso degli anni tra ristrutturazioni, crisi e nuove produzioni, con l’avvento dei robot ho visto piano piano assottigliarsi la pattuglia di uomini dotati di un mestiere ed aumentare nel frattempo la loro. Voglio ringraziare il mio sindacato non solo per quello che ha fatto per me, ma per quello che ha fatto per tutti- prosegue subissato da scroscianti applausi di una parte del pubblico.
Ne approfitta per bere ancora e riprende a parlare:
-Io sono sono venuto dal Sud e sono stati anni difficili di inserimento, ma il sindacato è stato per me una seconda scuola. Noi non nasciamo imparati, come si usa dire dalle mie parti, perché se tutti i lavoratori avessero coscienza del loro essere, del ruolo che svolgono, del sindacato se ne potrebbe fare a meno e mi voglio spingere oltre, anche del partito perché nessuno acquisisce una coscienza di appartenenza, diciamo di classe, il giorno del battesimo- .
Queste parole generano un piccolo fermento in prima fila, ed i robot cominciano a muoversi urtandosi perché la mancanza di queste nozioni, nei loro programmi, li rende scomposti mentre tra i palchi c’è chi approva e chi no; qualche striscione sventola.
Nella sua rievocazione, esprime gratitudine per chi gli ha dato la possibilità di mantenere il proprio posto di lavoro permettendogli così di mettere su, decorosamente, famiglia ed avviare i figli laureati al lavoro, stimolarlo al conseguimento della sua laurea in sociologia, e mostra il telegramma originale con il quale venne convocato nell’azienda.
Un reperto storico dato che da anni non si usa questa modalità e per i licenziamenti basta un messaggio sul computer. Come agita questo telegramma, subito le telecamere ed una schiera di fotografi si precipitano sotto il palco e prima di metterselo in tasca, Alvaro lo ostenta ancora. -Finalmente e mi avvio alla chiusura, potrò dare concretezza, alla mia età, all’attività preferita e cioè dedicarmi alla pittura. Qui decido io e solo io- .
A queste parole il sindaco lo interrompe:
-Come preferita? Non è stato forse il lavoro il dato più importante della sua vita?- .
Brusio in sala.
-Un momento; il lavoro mi ha permesso di vivere, ma non per questo ho vissuto- replica Alvaro.
-Ma che frasi sarebbero codeste? Mi ha permesso di vivere e non ho vissuto, boh! Ma si sente bene signor Alvaro?- insiste il sindaco.
-Benissimo, mai sentito meglio- gli risponde facendo brillare i suoi occhietti vispi -vivere è un’altra cosa perché il lavoro è tempo di costrizione e nel lavoro non ci si libera, caso mai ci si emancipa che non è la stessa cosa. Adesso potrò dedicarmi con i soldi della pensione all’attività più gradita che ripeto è la pittura- puntualizza sorridendo.
-Abbiamo avuto un Raffaello tra noi e non lo sapevamo- sbotta il sindaco scuotendo la testa tra fischi ed applausi e, accompagnato da un sorriso di compiacimento del rappresentante della Confindustria, inforca gli occhiali per leggere ancora dei telegrammi di saluto ignorandone uno di durissima contestazione.
Coglie anche l’occasione per definire la scaletta dei lavori: dopo gli interventi previsti, ci sarà la consegna della targa d’oro ad Alvaro, poi il rinfresco ed a seguire la sua conferenza stampa in esclusiva con lo sponsor; infine gli saranno rivolte cinque domande, riservate ai giornalisti, che concluderanno la manifestazione.
La stampa intuisce un epilogo diverso dal copione previsto e chiede tramite un loro rappresentante di poter fare delle domande ad Alvaro prima delle conclusioni, ma a questo punto, il sindaco si alza, chiede il permesso di parlare e ribadisce con forza la tempistica che ha già esposto:
-Ricordatevi che ci sarà anche un rinfresco per celebrare questa data che rimarrà nella storia e sottolineo rimarrà nella storia- aggiunge mettendosi a sedere.
Alvaro non ha niente da obbiettare a quanto già concordato ed in breve successione parlano sia il rappresentante del lavoro sia quello dell’impresa ed ognuno rivendica il proprio ruolo; i consensi ed i dissensi che si manifestano rumorosamente marcano una divisione reale.
Forme di linguaggio ritenute sepolte vengono insolitamente ripristinate e colgono di sorpresa gli stessi presenti in maniera trasversale ed il rischio di creare delle crepe in un orizzonte ritenuto a torto consolidato diventa manifesto quando il rappresentante dell’industria nel suo intervento, cita Marx come “grandissimo pensatore di quasi due secoli fa che ha studiato le linee di tendenza nel processo del macchinismo perfettamente in linea con lo sviluppo degli human-robot”.
Imbarazzo, sbigottimento ed incomprensione; i rappresentanti del mondo del lavoro si guardano tra loro come quelli dell’industria.
-Per questo abbiamo applicato queste intuizioni geniali ed il nostro obbiettivo del progetto Saturno sarà la fabbrica integrale dove l’essere umano, in misura ridottissima, potrà guidarla comodamente seduto davanti ad un pannello informatico, dopo di che anche il mondo sindacale sarà superfluo e così anche noi ci leveremo un sacco di beghe. Vi ringrazio per l’attenzione- termina nel gelo totale.
-Qui qualcuno ha sbagliato a fare il proprio mestiere- pensa Alvaro che annota prima che gli venga consegnata la targa-ricordo tra macchine fotografiche e videocamere che lo ritraggono, applausi che si sprecano, cellulari che squillano, taccuini subito riempiti e bottiglie di champagne stappate.
Nella sala, impalpabile come l’imbarazzo che si registra, tra commenti e tartine, durante il rinfresco faraonico, si aggira un fantasma. Per questo il rappresentante dell’industria viene catturato dalla curiosità dei cronisti e con i microfoni vicino alla bocca riesce a dare a loro alcuni chiarimenti richiesti.
-Perché quel riferimento a Marx sullo sviluppo del macchinismo a quasi due secoli di distanza da quando è stato elaborato?- chiede un giornalista.
-È un doveroso riconoscimento a chi in epoche lontane ha individuato certe tendenze- asserisce l’industriale.
-Non teme che questo possa dare impulso ad un equivoco sociale?- .
-Perché? Oggi, come ha detto giustamente il sindaco, il lavoro dei robot è talmente spinto che la forza lavoro umana è in minoranza e lo sarà ancor di più nel progetto Saturno di cui sono il manager responsabile. Ora esiste un complesso macchinario produttivo che svuota il lavoro umano come impatto... diciamo sociale- precisa prima che un coro assordante insieme ad un battito di mani scrosciante provenga dalla parte dei robot rendendo difficile la comprensione delle parole.
-Si spieghi meglio, per favore- .
-L’avete mai vista la buccia integra di un fico svuotato completamente da un passerotto? Il fico è come il lavoro semplicemente appeso all’albero e lo svuotamento significa toglierli l’impatto sociale. È chiaro adesso?- dice sorridendo l’esponente dell’impresa accerchiato dalla stampa.
Non tutti hanno compreso, come sempre accade, ma chi ha colto nella metafora il significato torna alla carica.
-Mi scusi, dottore, ma per lei la fabbrica esisterà ancora?- .
-Per certi aspetti la fabbrica come l’abbiamo ereditata non esiste più da un pezzo! Se il lavoro umano non è più l’unità di misura, mi dite chi lo rappresenta come può fare ad avere pretese? Adesso sono le macchine che producono le macchine; è chiaro?- precisa sorridendo il manager.
A questa affermazione i robot battono nuovamente le mani ed una musichetta si diffonde dai loro terminali.
-Scusi, ma allora si avranno sempre più disoccupati?- chiede una giornalista a cui segue una risposta sferzante:
-Se ne accorge ora?- .
Finisce al momento il botta e risposta tra stampa ed il manager industriale.
Alvaro si alza in piedi e continua a mostrare il trofeo sorridendo subito tempestato da fotografie ed applausi. In tuta con il telegramma storico in una mano e nell’altra la targa, sale sul tavolo, compie un semicerchio ed improvvisa un discorso che dura poco più di due minuti.
Soddisfatto si siede e mentre la gente si abbuffa al rinfresco, lui in un angolo rimira la sua targa lucidandola con la manica della tuta; ha ancora nelle orecchie le affermazioni dell’industriale, ma preferisce al momento soprassedere.
A breve, in una stanzetta riservata, si svolgerà l’intervista concordata con la televisione che gli ha acquistato i diritti e, sentendo di non aver dimestichezza con questo genere di comunicazione, vorrebbe rinunciarci però i proventi che ne derivano sono importanti e non può rifiutarli.
Era stato tentato, per questo evento, di dare le sue memorie ad una televisione che fa solo telegiornale in continua riservato alla propria città, ma sentita la proposta del manager della emittente che lo ha scritturato, ha preferito, a parità di condizioni, usufruire di un impatto mediatico nazionale.
-In fondo si vive una volta sola- commentò immediatamente a margine della sua decisione.
Viene sollecitato a sistemarsi dietro al tavolo ed il regista gli ricorda di restare immobile perché le telescriventi sono state tarate sul suo preciso timbro di voce ed in caso di spostamento potrebbero risultare sfasate, trascrivendo ad intermittenza e scorrettamente.
Fa una prova dicendo una frase a caso ed in tempo reale tutto ciò che ha detto viene immediatamente scritto ed è tradotto in diverse lingue. Il controllo da esito positivo ed Alvaro, che non si può muovere per prendere da bere, fa un gesto e subito viene servito.
Con il telegramma spillato sul taschino della tuta egli immobile aspetta la prima domanda:
-Signor Alvaro ci può raccontare un episodio scabroso, una sorpresa sconvolgente nella sua carriera?- .
-Una sera alla televisione vidi un documentario che riguardava la guerriglia in una zona dell’Africa. Vennero mostrati reperti militari ed appresi in diretta che un tubo telescopico di un elettrodomestico da noi prodotto, veniva utilizzato come componente di un ordigno micidiale usato proprio contro quella popolazione- .
-Ci può dire la marca?- .
-Non creo sia utile perché esaurirei una domanda- .
-Ci dica signor Alvaro lei ha qualche altro episodio, che lo ha particolarmente toccato?- .
-Quando la commissione di controllo della produzione esaminato il diagramma elaborato da un robot, determinò il licenziamento di due operai ed uno di questi morì di tumore due mesi dopo. La moglie mi disse che era consapevole di avere pochi mesi di vita, ma non voleva che si sapesse perché doveva portare a casa lo stipendio anche se le forze gli venivano meno tutti i giorni- .
Commosso da questa rievocazione altera il timbro di voce e questo compromette il prosieguo della intervista. Gli strumenti vengono tarati di nuovo e lui è costretto a ripetere per filo e per segno tre volte la stessa risposta.
-Adesso un’altra domanda signor Alvaro, anzi dottor Alvaro. Le abbiamo chiesto di episodi sconvolgenti, umanamente toccanti. Cambio argomento. Lei ha detto che il lavoro non ci libera; perché? Chi non lavora non è ancora meno libero perché dipende dalla carità altrui?- .
Egli in quel momento vorrebbe tossire, ma non può. Beve, deglutisce e dopo un ampio respiro spiega:
-La libertà non è poter lavorare perché uno lavora costretto dal bisogno, non per gusto di lavorare. Per me la libertà è qualcosa che scelgo e che mi appaga. Secondo voi stare tutto il giorno a fare gesti e mansioni che anche una scimmia può fare davanti ad una macchina, realizza qualcuno? Voi giornalisti, quando scrivete, dato sfogo alla vostra capacità di comporre un discorso, un' immagine e non ci sarà mai un articolo uguale ad un altro. Per questo fate fatica a capire gli altri- .
Sono previste altre due domande come da contratto ed il giornalista vuol evitare domande che rischiano di entrare in una palude teorica e ritorna a questioni di vissuto, pettegolezzi che possono interessare una fascia larga di telespettatori.
Gli viene chiesto subito qual è stato uno dei momenti più piacevoli della sua vita da operaio. Alvaro riflette a lungo e ricorda, sorridendo con gli occhi, quando vennero buttate delle biglie per terra per ritorsione contro i robot.
Abituati a muoversi come i pipistrelli riuscivano ad evitare qualsiasi ostacolo tranne quelli a livello di pavimento e di piccole dimensioni. Il risultato fu che sormontando le biglie persero il loro passo e cominciarono ad ondeggiare, urtandosi. La fragorosa risata che ne segue, invalida la parte terminale della risposta e lo obbliga ad una rilettura di quanto trascritto in simultanea dalla telescrivente.
-E ora per concludere un episodio paradossale che lo ha colpito e di cui non ne ha mai parlato con qualcuno per paura di essere preso in giro- chiede il cronista esaurendo il novero delle domande.
-Quando la mia fresa preferita, che mi aveva accompagnato nei primi dieci anni del mio mestiere e sulla quale avevo appreso tutti i segreti, un giorno a seguito di una lavorazione rischiosa dopo una passata troppo spessa, prese a cigolare e le cinghie, girando a vuoto, diffusero un acre odore di bruciato.
Il mandrino si spaccò in due e non era conveniente procedere al suo ripristino. Buttata in uno sgabuzzino venne prelevata da un rottamatore qualche giorno dopo. Rimasi fortemente contuso ad uno zigomo e nei due giorni che restai, ignorato su una barella in ospedale, pensai a quella fresa. Mi ci ero affezionato e piansi dal dispiacere di non poterla adoperare più- .
Il regista gli fa un cenno di restare immobile e con soddisfazione chiude l’intervista dicendo:
-Tutto quello che avreste voluto sapere sulla vita lavorativa di Alvaro ultimo rappresentante di una categoria di operai. In esclusiva grazie alla nostra emittente Mercurio per la quale tutto è possibile. Arrivederci al prossimo appuntamento- .
Liberato da questo fardello Alvaro riprende a girare per il teatro salutando chiunque gli capiti vicino. Resta in attesa di sapere se deve trattenersi ancora nello spazio del teatro perché al momento la star della situazione è l’esponente del mondo dell’impresa.
Tutti cercano di essere rassicurati dalle sue affermazioni, altri vogliono capire certi concetti e per questo lo stesso giornalista che ha richiesto di poter fare delle domande alla fine della manifestazione, chiede temporaneamente di soprassedere.
A risolvere la situazione è l’intervento del responsabile della emittente che ricorda all’industriale, a muso duro, che egli ha altre opportunità di esprimere il proprio pensiero, e che l’evento mediatico è il pensionamento di Alvaro nel giorno della festa del lavoro e non le “sue fregole teoriche”.
Viene rinnovata allora la richiesta di formulare la proposta per cui alcuni giornalisti avranno la possibilità di fare in tutto cinque domande ad Alvaro prima della conclusione della manifestazione.
Chiarito che quanto già realizzato verrà trasmesso integralmente ed unicamente su un canale nazionale queste domande dovranno essere ovviamente diverse dalle precedenti e potranno essere veicolate su qualsiasi canale.
Il regista della manifestazione, furbescamente giocando sui tempi fa presente che sono previste solo tre domande e non cinque perché il tempo a disposizione si è assottigliato ed invita pertanto i giornalisti a consultarsi celermente in maniera da porre delle questioni che interessino tutti.
Il responsabile del mondo imprenditoriale anche se non invitato, si porta in prima fila seguito da un codazzo di robot. Anche vari sindacalisti si accalcano nei pressi del tavolo. Parte la prima domanda.
-Bene signor Alvaro, secondo lei la fabbrica come l’abbiamo conosciuta avrà un futuro?- .
Lui aggrotta la fronte e guardando oltre la sala continua:
-Come l’abbiamo conosciuta o meglio come l’ho conosciuta io, no di sicuro. Domandiamoci cosa è una fabbrica. Vedete se io entro in un negozio e chiedo un golf giallo escludo contemporaneamente tutti quelli che non sono gialli. Giusto?- argomenta tra sguardi ed ammiccamenti insoliti.
Invita a fare attenzione e prosegue:
-Capisco il vostro stupore o disappunto, ma fatemi finire il concetto. Se io entro in un luogo chiamato fabbrica vuol dire che sul territorio esistono dei luoghi che non sono fabbriche cioè fino ad adesso c’è stato un qualcosa, un tratto distintivo che permette di classificare una cosa, in questo caso la fabbrica, da qualcos’altro che non è fabbrica. Questa domanda non dovevate farla a me, ma alla politica che si muove con la finalità di far diventare tutta la società come una fabbrica. Se tutta la società diventerà una fabbrica a quel punto la fabbrica, come luogo separato, non esisterà più. Sono stato chiaro?- .
-Macché chiaro, lei ci prende in giro- .
-Io non ho capito niente- .
-Questo qui parla in codice... come posso fare il pezzo per domani?-.
-Questa festa è una buffonata!- brontola uno che non si stacca dal tavolo dei pasticcini.
-Bravo, lo penso anch’io così- rincalza un invitato con la bocca piena.
-Ha ragione l’operaio Alvaro- interviene disorientando ancor di più i presenti il responsabile della confindustria sempre applaudito dai robot -non conviene mantenere nell’immaginario collettivo una presenza specifica della fabbrica. È un richiamo insidioso per il nostro mondo dell’imprenditoria perché questo termine evoca lotte e conflitti sociali- .
-Ma questo chi lo paga?- .
-Basta con queste stronzate!- .
-Meglio chiudere altrimenti domani sai le risate che si faranno alle nostre spalle- commenta una sindacalista.
-Per questo voi è un pezzo che avete chiuso basta aver ascoltato quello che hanno detto tutti- sentenzia un piccolo imprenditore che nella foga sputa briciole di biscotti e muco.
-Potrete robotizzare la fabbrica, ma non i servizi; e lì che ci misureremo- replica minacciosa la sindacalista stendendo il braccio con l’indice puntato.
Inavvertitamente urta il sindaco che si sbraccia per far ritornare la calma ma la situazione è ormai compromessa perché le aspettative di chi ha promosso l’evento erano sicuramente diverse.
-Signori e signore abbiamo fatto questa festa ed ora si è fatto tardi... vi ringrazio tutti per la presenza e la partecipazione e penso di chiudere qui- . -Alt, un momento mancano tre minuti e due domande, come da accordi e lei sindaco sa che noi o-no-ria-mo bene gli accordi, capito?- controbatte il regista facendo scivolare l’indice sul pollice -pertanto lasci a me la facoltà di fare al signor Alvaro anzi al dottor Alvaro di cui tutti avete ignorato i meriti accademici, due domande- afferma ancor più risolutamente.
La sorpresa è viva per il tono deciso, quasi arrogante, del suo intervento ed approfittando del silenzio creatosi formula lui all’istante le due domande:
-Dottor Alvaro ha un rammarico nella sua vita da operaio legato alla fabbrica ed adesso ha un desiderio?- .
Alvaro come spinto da una molla, libero da condizionamenti tecnici, ricorda il grande rammarico di non aver potuto festeggiare la sua tesi di laurea, perché appena laureato doveva entrare a lavorare nel turno pomeridiano a causa del rifiuto dell’azienda di dargli un giorno libero, per esigenze di produzione. Per quanto riguarda un desiderio da esprimere si ferma un attimo, si guarda intorno e tace.
-Dottor Alvaro manca un minuto si esprima- .
-In futuro vedrò, ma adesso vorrei chiudere questo giorno con il canto dell’Internazionale- .
Fischi, urla, applausi, abbracci, invettive, sorrisi, bestemmie e qualche lacrima di gioia. Questo il quadro della situazione a cui il regista riesce a far fronte con tempestività e nel subbuglio fa presente che non ha quanto richiesto, ma solo l’Inno dei Lavoratori.
-Va bene lo stesso anche se non è uguale, perché nel mondo a differenza che da noi, i lavoratori aumentano. Grazie- concorda Alvaro che saluta la folla avviandosi verso l’uscita.
-Chiudiamo questa avvincente telecronaca dimostrando come la nostra emittente Mercurio sia in grado di soddisfare qualsiasi desiderio anche imprevisto ed in diretta- dichiara visibilmente eccitato il regista.
-Veramente le conclusioni le dovevo fare io- contesta il sindaco mentre la sala si svuota rapidamente.
Febbraio 1992
Gino Benvenuti
GIORNO PER GIORNO
racconti
Con la prefazione di Raffaele K. Salinari
“Possiamo ricordarci del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose… Gino Benvenuti è un giusto e i racconti sono le sue maschere: in Giorno per giorno la prosa è tesa, come a mettere in rilievo tutti i particolari che compongono i tratti di queste pagine caleidoscopiche, affinché ogni frammento irradi al massimo la sua luce, brillante od oscura che sia, a dispiegare pienamente il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale può farci attraversare, nel tempo della cronaca, di Cronos, il cammino sospeso costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.
Ma dove porta la sua passerella? Ebbene, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» deve collegare sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra e nell’animo umano, riportandole, senza commenti o stigmate morali, in superficie. La gerarchia che ha nelle maschere del giusto le sua cime più alte, sprofonda allora anche in gradini successivi nell’abisso dell’abominio, dove si esprime non tanto la voce umana, ma quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, L’Inquietudine, cioè il sentimento del Cosmo alla perenne ricerca della sua stessa forma”. (dalla Prefazione di Raffaele K. Salinari)
EDIZIONI PUNTO ROSSO, 2018, Pagg.508, 19 euro.
DUE RACCONTI
Agguato
Alla periferia della città, nei pressi di un incrocio della strada provinciale con un vicolo sterrato e senza sfondo, un uomo rimase a lungo acquattato vicino a dei cassonetti della spazzatura. Poggiò un ginocchio per terra e si frugò in tasca prima di estrarre una lunga catenella alla cui estremità, un orologio mostrò tutto il suo splendore una volta sollevato il coperchio.
Dentro un cassonetto dell’immondizia, rovistò in superficie e da una scatola tolse un berretto marrone con una curiosa toppa bianca nel mezzo e una lunga tesa decorata. Corrugata la fronte, richiuse il cassonetto e, agitando la mano, sventolò il berretto all’amico più giovane seduto sul marciapiede di fronte, accanto ad un’auto ammaccata, priva di paraurti e di una ruota. Se lo calcò in testa aggiustandosi gli occhiali scuri, e si diresse verso di lui massaggiandosi il mento aguzzo.
Parlottarono brevemente sottovoce, guardarono ancora l’orologio a catenella e poi si separarono di nuovo; ognuno riprese le postazioni precedenti. Due persone in ciabatte, uscirono da un edificio attiguo e, sfiorando dei rugginosi contenitori per l’acqua potabile, attraversarono la strada prima di depositare i sacchetti della spazzatura nel cassonetto; velocemente tornarono indietro senza parlarsi.
Nessuna di loro chiese agli uomini cosa facessero e chi aspettassero, prima di rientrare di soppiatto nel proprio condominio dalle facciate cadenti, che quella giornata nebbiosa rendeva più sbiadite. Nell’unica villetta del vicolo, un fascio di luce proveniente dal garage illuminò progressivamente le statuette in ceramica disposte nel resede, prima di smorzarsi davanti al cancello.
Dall’auto di grossa cilindrata scese un uomo minuto dalla testa quasi completamente calva, avvolto in una magnifica sciarpa azzurra. Dette uno sguardo al suo comignolo rosso e rientrò in casa per ricomparire poco dopo impugnando una borsa di pelle nera chiusa con delle fibbie argentate. I due uomini si scambiarono a lungo delle occhiate e dei cenni con le mani prima di cominciare, accelerando il passo, a camminare sui lati opposti della strada priva di marciapiedi.
Dopo una decina di metri il più giovane, tagliando verso il centro della strada, cominciò a far oscillare un sacco penzoloni dalla mano destra mentre con l’altra infilata nella giubba sbrindellata, sembrò massaggiarsi lo stomaco. Mostrava una barba bionda e ruvida, intrecciata con una fluente capigliatura incolta e riccioluta, a stento contenuta da un berretto, con la tesa rigida sulla nuca, calcato fino al pari delle sopracciglia.
Il più anziano iniziò a camminare rasentando i muretti di confine dei vari condomini e si guardò ripetutamente attorno. Massaggiò a lungo il collo, facendolo roteare, ed infilando una mano nella tasca di una nera pelliccia sdrucita in più punti estrasse una busta di tabacco; liberò uno sbadiglio e si soffermò.
Il giovane inforcò un paio di occhiali scuri e, con fare spavaldo, aumentando il passo sillabò mentalmente senza emettere un suono “oggi bastardo, me la pagherai, non hai scampo, oggi me la pagherai una volta per tutte”; entrambi giunsero vicino al cancello nel momento in cui l’uomo depositò nel baule dell’auto la borsa. Azionò il telecomando del cancello che cominciò ad aprirsi lentamente e una volta in strada si affiancò ad un cassonetto della nettezza.
Dopo avervi depositato un sacchetto, nel muoversi verso la sua vettura, s’incrociò, salutando, con il giovane che passò oltre per arrestarsi quasi subito. Con sfrontatezza estrasse un coltello a serramanico dalla tasca del giubbotto, tenendolo racchiuso nel suo pugno, e tornò subito indietro. Sorrise con la lingua che sfiorò ripetutamente il labbro superiore, e mentre i suoi passi infransero il sottile umidore dell’asfalto accennò all’amico l’uomo che ignaro tornava alla sua vettura.
Non si accorse che una persona prese improvvisamente a camminare obliquamente ed aprendo la sua pelliccia mise la mano sinistra in una tasca del suo vistoso ed abbondante maglione colorato. Si toccò la tesa del berretto e raccolto un foglio di giornale per terra si mosse verso la portiera dell’auto precedendo il proprietario che trovandosi faccia a faccia con un estraneo cercò di scansarlo; invano. Ostacolato ed impaurito, pensò di voltarsi e fuggire ma l’uomo più giovane già alle sue spalle, glielo impedì. Prima di parlare si guardò attorno un paio di volte e dopo stentatamente chiese:
-Giovane cosa desidera?- .
-Un passaggio fino alla stazione- rispose l’altro alle sue spalle puntandogli la pistola alla schiena.
Si voltò ancora e fece in tempo ad intravedere una canna sotto il giornale e un volto terreo e magro a lungo ignorato dal sapone, segnato da un’espressione crudele. Respirò a fatica e guardò implorante entrambi. In preda al panico cercò ovunque un aiuto impossibile ma vide solo una striscia grigia oltre la quale si notava una scura linea di nubi.
Continuò a sentire la pressione della canna contro la sua schiena mentre l’altro fece scattare il serramanico dicendogli di montare macchina. L’uomo spaventato si tolse gli occhiali appannati, e cominciò ad urlare:
-Cosa vuoi?- .
-Cosa volete! Siamo due- precisò il più anziano muovendo il foglio di giornale.
-Niente di interessante, la tua vita- rispose il più giovane.
-Ma chi siete? Volete dell’elemosina?- .
-Entra in macchina e non strillare, bastardo!- .
Fu così che il giovane si sedé accanto a lui, mentre l’altro premendo il pulsante abbassò il finestrino e si appoggiò con un gomito allo sportello sequestrando le chiavi. Con la pelliccia, aperta come un mantello, nascose a qualsiasi eventuale curioso di passaggio, le sue intenzioni e guardandosi attorno disse togliendosi gli occhiali:
-Non vogliamo elemosina perché ora siamo noi quelli che possiamo fartela- .
-Scusate non per offendervi, signori ma...- balbettò l’uomo afferrando il volante prima che le parole gli morissero in gola.
-Ti ricordi l’estate scorsa?- .
-Non so di cosa stia parlando- .
-Quando mia moglie venne da lei a chiederle lavoro e lei si sentì in dovere di violentarla, dopo averla assunta. Se lo ricorda?- proseguì il più anziano modulando la voce ed irrigidendo la sua espressione.
Le rughe sul viso scuro erano diventate ancora più profonde.
-Tu sei il dirigente d’azienda, il capetto che con il suo potere decide la vita o la morte d’una famiglia- continuò fissandolo con i suoi occhi foschi ed astiosi che restarono immobili.
-C’è un equivoco...scusate…signori- cercò di spiegare gesticolando mentre del sudore abbondante gli scivolò sul volto pallido bagnando la sciarpa.
-Nessun equivoco…mia moglie da quel giorno è fuori di testa. La sua vita è diventata un inferno- replicò il più anziano avvicinandoglisi ancor di più.
-E anche la nostra- aggiunse il giovane che era rimasto sempre in silenzio.
-Ma lei chi è, scusi?- .
-Il fratello di sua moglie- .
-Non la conosco!-
-Se volete la valigetta, prendetela pure…l’ho messa nel baule. Fatemi uscire e ve la darò. Non vi denunzierò, farò finta di niente credetemi…c’è un equivoco- supplicò mentre le mani tremanti sfiorarono ancora gli occhiali appannati.
-Se avete bisogno di me… questo è il mio biglietto- proseguì prendendone uno dal suo taschino.
-E questo il nostro... ora basta!- .
Un colpo secco rimbombò nel vicolo; una finestra si richiuse e un gatto spaurito attraversò la strada.
Prima che il suono si fosse smorzato ne seguì un altro; a bruciapelo. La vittima cadde tra lo sportello ed il sedile e non ebbe tempo di rendersi conto che i proverbi hanno la loro importanza.
Il terzo colpo quando lo raggiunse forse lo trovò già cadavere.
I suoni smorzati dalla caligine, dal vicolo salirono tranquillamente al cielo, senza interrompere i giochi di alcuni bambini nel giardino condominiale intorno a delle carcasse di motorini.
A testa alta entrambi gli uomini ripresero la via di casa.
********************
Il Mimo
Piazza della Signoria, pomeriggio inoltrato di Maggio.
Quando le giornate sembrano non finire mai specialmente se assolate e le pietre restituiscono il colore ed il calore, attorniato da un gruppo di curiosi, un giovane dai capelli riccioluti ed il volto scarno con l’aiuto di uno specchio, comincia a truccarsi. I suoi gesti sono lenti e senza alcun inganno gli spettatori possono vedere il graduale comporsi della maschera.
Ciò rende più impazienti e curiosi coloro che osservano. Uno strato abbondante di bianco sul volto, un rossetto viola scuro per le labbra ed alla fine una lacrima rossa che sembra sgorgare dall’occhio destro.
Vestito con pantaloni a righe bianche e rosse che arrivano a metà dello stinco, trattenuti da ampie bretelle, calza un paio di polacche sprovviste di lacci che presentano un paio di linguette enormi e chiuso nel suo silenzio, infila i guanti e scrutando attorno a sé raccoglie una bombetta nera.
Tutti i presenti sono come appesi ai suoi gesti quando comincia a mimare una scena facendo roteare i grandi occhi neri. Chi aspetta un’allusione volgare, in grado di far sorridere sarà deluso perché il suo abbigliamento paradossale contrasta con i suoi gesti contenuti, studiati, raffinati; tace con la bocca e parla con il corpo.
I presenti ammutoliti con gli occhi incollati sulla sua persona ne seguono le movenze e quando preme l’indice ed il pollice in mezzo alle sopracciglia, una lacrima scende lentamente e dissolve il trucco al suo passaggio.
Una persona presente che commenta ad alta voce viene allontanata poco prima che il mimo cominci a barcollare sforzando un sorriso; anche i presenti sorridono. Non sanno distinguere tra finzione e realtà e gli esprimono una vicinanza che lo spinge a proseguire, quando lentamente s’inginocchia.
Il cerchio intorno a lui si allarga ed una bimba che vuol vedere viene issata sulle spalle di un genitore. Poco oltre un isolato musicista estrae una tromba da una custodia ma quando prova un accordo, viene redarguito.
-Lei ci toglie la concentrazione se ne vada da un’altra parte e lo faccia terminare-redarguisce con tono duro una signora.
L’uomo stupito accetta di riporre il suo strumento e si aggrega agli altri presenti.
Il mimo, a cui non è sfuggito questo episodio, sorridendo s’inchina e quando cerca di rialzarsi afferra la sua gola, spalanca la bocca e sbarra gli occhi che si annebbiano; non vede oltre ma ripete gesti consueti. Dietro la sua maschera adesso c’è solo il vuoto prodotto dal desiderio di mettere insieme, per un giorno, il pranzo con la cena.
La gente è come rapita ed alcuni addirittura aprono la bocca e ne copiano le contorsioni che stanno diventando penose quando il mimo si sente mancare le forze ma lui con lentezza si siede composto e gradualmente si corica su un fianco; alza le testa e sorride prima di reclinarla esanime.
Ha vinto la sua scommessa di coinvolgere i presenti che incapaci di esprimere una comprensione oltre la sua maschera mentre si allontanano gli gettano degli spiccioli nel suo cappello.
Il musicista scavalcandolo prende il suo posto.
Agguato
Alla periferia della città, nei pressi di un incrocio della strada provinciale con un vicolo sterrato e senza sfondo, un uomo rimase a lungo acquattato vicino a dei cassonetti della spazzatura. Poggiò un ginocchio per terra e si frugò in tasca prima di estrarre una lunga catenella alla cui estremità, un orologio mostrò tutto il suo splendore una volta sollevato il coperchio.
Dentro un cassonetto dell’immondizia, rovistò in superficie e da una scatola tolse un berretto marrone con una curiosa toppa bianca nel mezzo e una lunga tesa decorata. Corrugata la fronte, richiuse il cassonetto e, agitando la mano, sventolò il berretto all’amico più giovane seduto sul marciapiede di fronte, accanto ad un’auto ammaccata, priva di paraurti e di una ruota. Se lo calcò in testa aggiustandosi gli occhiali scuri, e si diresse verso di lui massaggiandosi il mento aguzzo.
Parlottarono brevemente sottovoce, guardarono ancora l’orologio a catenella e poi si separarono di nuovo; ognuno riprese le postazioni precedenti. Due persone in ciabatte, uscirono da un edificio attiguo e, sfiorando dei rugginosi contenitori per l’acqua potabile, attraversarono la strada prima di depositare i sacchetti della spazzatura nel cassonetto; velocemente tornarono indietro senza parlarsi.
Nessuna di loro chiese agli uomini cosa facessero e chi aspettassero, prima di rientrare di soppiatto nel proprio condominio dalle facciate cadenti, che quella giornata nebbiosa rendeva più sbiadite. Nell’unica villetta del vicolo, un fascio di luce proveniente dal garage illuminò progressivamente le statuette in ceramica disposte nel resede, prima di smorzarsi davanti al cancello.
Dall’auto di grossa cilindrata scese un uomo minuto dalla testa quasi completamente calva, avvolto in una magnifica sciarpa azzurra. Dette uno sguardo al suo comignolo rosso e rientrò in casa per ricomparire poco dopo impugnando una borsa di pelle nera chiusa con delle fibbie argentate. I due uomini si scambiarono a lungo delle occhiate e dei cenni con le mani prima di cominciare, accelerando il passo, a camminare sui lati opposti della strada priva di marciapiedi.
Dopo una decina di metri il più giovane, tagliando verso il centro della strada, cominciò a far oscillare un sacco penzoloni dalla mano destra mentre con l’altra infilata nella giubba sbrindellata, sembrò massaggiarsi lo stomaco. Mostrava una barba bionda e ruvida, intrecciata con una fluente capigliatura incolta e riccioluta, a stento contenuta da un berretto, con la tesa rigida sulla nuca, calcato fino al pari delle sopracciglia.
Il più anziano iniziò a camminare rasentando i muretti di confine dei vari condomini e si guardò ripetutamente attorno. Massaggiò a lungo il collo, facendolo roteare, ed infilando una mano nella tasca di una nera pelliccia sdrucita in più punti estrasse una busta di tabacco; liberò uno sbadiglio e si soffermò.
Il giovane inforcò un paio di occhiali scuri e, con fare spavaldo, aumentando il passo sillabò mentalmente senza emettere un suono “oggi bastardo, me la pagherai, non hai scampo, oggi me la pagherai una volta per tutte”; entrambi giunsero vicino al cancello nel momento in cui l’uomo depositò nel baule dell’auto la borsa. Azionò il telecomando del cancello che cominciò ad aprirsi lentamente e una volta in strada si affiancò ad un cassonetto della nettezza.
Dopo avervi depositato un sacchetto, nel muoversi verso la sua vettura, s’incrociò, salutando, con il giovane che passò oltre per arrestarsi quasi subito. Con sfrontatezza estrasse un coltello a serramanico dalla tasca del giubbotto, tenendolo racchiuso nel suo pugno, e tornò subito indietro. Sorrise con la lingua che sfiorò ripetutamente il labbro superiore, e mentre i suoi passi infransero il sottile umidore dell’asfalto accennò all’amico l’uomo che ignaro tornava alla sua vettura.
Non si accorse che una persona prese improvvisamente a camminare obliquamente ed aprendo la sua pelliccia mise la mano sinistra in una tasca del suo vistoso ed abbondante maglione colorato. Si toccò la tesa del berretto e raccolto un foglio di giornale per terra si mosse verso la portiera dell’auto precedendo il proprietario che trovandosi faccia a faccia con un estraneo cercò di scansarlo; invano. Ostacolato ed impaurito, pensò di voltarsi e fuggire ma l’uomo più giovane già alle sue spalle, glielo impedì. Prima di parlare si guardò attorno un paio di volte e dopo stentatamente chiese:
-Giovane cosa desidera?- .
-Un passaggio fino alla stazione- rispose l’altro alle sue spalle puntandogli la pistola alla schiena.
Si voltò ancora e fece in tempo ad intravedere una canna sotto il giornale e un volto terreo e magro a lungo ignorato dal sapone, segnato da un’espressione crudele. Respirò a fatica e guardò implorante entrambi. In preda al panico cercò ovunque un aiuto impossibile ma vide solo una striscia grigia oltre la quale si notava una scura linea di nubi.
Continuò a sentire la pressione della canna contro la sua schiena mentre l’altro fece scattare il serramanico dicendogli di montare macchina. L’uomo spaventato si tolse gli occhiali appannati, e cominciò ad urlare:
-Cosa vuoi?- .
-Cosa volete! Siamo due- precisò il più anziano muovendo il foglio di giornale.
-Niente di interessante, la tua vita- rispose il più giovane.
-Ma chi siete? Volete dell’elemosina?- .
-Entra in macchina e non strillare, bastardo!- .
Fu così che il giovane si sedé accanto a lui, mentre l’altro premendo il pulsante abbassò il finestrino e si appoggiò con un gomito allo sportello sequestrando le chiavi. Con la pelliccia, aperta come un mantello, nascose a qualsiasi eventuale curioso di passaggio, le sue intenzioni e guardandosi attorno disse togliendosi gli occhiali:
-Non vogliamo elemosina perché ora siamo noi quelli che possiamo fartela- .
-Scusate non per offendervi, signori ma...- balbettò l’uomo afferrando il volante prima che le parole gli morissero in gola.
-Ti ricordi l’estate scorsa?- .
-Non so di cosa stia parlando- .
-Quando mia moglie venne da lei a chiederle lavoro e lei si sentì in dovere di violentarla, dopo averla assunta. Se lo ricorda?- proseguì il più anziano modulando la voce ed irrigidendo la sua espressione.
Le rughe sul viso scuro erano diventate ancora più profonde.
-Tu sei il dirigente d’azienda, il capetto che con il suo potere decide la vita o la morte d’una famiglia- continuò fissandolo con i suoi occhi foschi ed astiosi che restarono immobili.
-C’è un equivoco...scusate…signori- cercò di spiegare gesticolando mentre del sudore abbondante gli scivolò sul volto pallido bagnando la sciarpa.
-Nessun equivoco…mia moglie da quel giorno è fuori di testa. La sua vita è diventata un inferno- replicò il più anziano avvicinandoglisi ancor di più.
-E anche la nostra- aggiunse il giovane che era rimasto sempre in silenzio.
-Ma lei chi è, scusi?- .
-Il fratello di sua moglie- .
-Non la conosco!-
-Se volete la valigetta, prendetela pure…l’ho messa nel baule. Fatemi uscire e ve la darò. Non vi denunzierò, farò finta di niente credetemi…c’è un equivoco- supplicò mentre le mani tremanti sfiorarono ancora gli occhiali appannati.
-Se avete bisogno di me… questo è il mio biglietto- proseguì prendendone uno dal suo taschino.
-E questo il nostro... ora basta!- .
Un colpo secco rimbombò nel vicolo; una finestra si richiuse e un gatto spaurito attraversò la strada.
Prima che il suono si fosse smorzato ne seguì un altro; a bruciapelo. La vittima cadde tra lo sportello ed il sedile e non ebbe tempo di rendersi conto che i proverbi hanno la loro importanza.
Il terzo colpo quando lo raggiunse forse lo trovò già cadavere.
I suoni smorzati dalla caligine, dal vicolo salirono tranquillamente al cielo, senza interrompere i giochi di alcuni bambini nel giardino condominiale intorno a delle carcasse di motorini.
A testa alta entrambi gli uomini ripresero la via di casa.
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Il Mimo
Piazza della Signoria, pomeriggio inoltrato di Maggio.
Quando le giornate sembrano non finire mai specialmente se assolate e le pietre restituiscono il colore ed il calore, attorniato da un gruppo di curiosi, un giovane dai capelli riccioluti ed il volto scarno con l’aiuto di uno specchio, comincia a truccarsi. I suoi gesti sono lenti e senza alcun inganno gli spettatori possono vedere il graduale comporsi della maschera.
Ciò rende più impazienti e curiosi coloro che osservano. Uno strato abbondante di bianco sul volto, un rossetto viola scuro per le labbra ed alla fine una lacrima rossa che sembra sgorgare dall’occhio destro.
Vestito con pantaloni a righe bianche e rosse che arrivano a metà dello stinco, trattenuti da ampie bretelle, calza un paio di polacche sprovviste di lacci che presentano un paio di linguette enormi e chiuso nel suo silenzio, infila i guanti e scrutando attorno a sé raccoglie una bombetta nera.
Tutti i presenti sono come appesi ai suoi gesti quando comincia a mimare una scena facendo roteare i grandi occhi neri. Chi aspetta un’allusione volgare, in grado di far sorridere sarà deluso perché il suo abbigliamento paradossale contrasta con i suoi gesti contenuti, studiati, raffinati; tace con la bocca e parla con il corpo.
I presenti ammutoliti con gli occhi incollati sulla sua persona ne seguono le movenze e quando preme l’indice ed il pollice in mezzo alle sopracciglia, una lacrima scende lentamente e dissolve il trucco al suo passaggio.
Una persona presente che commenta ad alta voce viene allontanata poco prima che il mimo cominci a barcollare sforzando un sorriso; anche i presenti sorridono. Non sanno distinguere tra finzione e realtà e gli esprimono una vicinanza che lo spinge a proseguire, quando lentamente s’inginocchia.
Il cerchio intorno a lui si allarga ed una bimba che vuol vedere viene issata sulle spalle di un genitore. Poco oltre un isolato musicista estrae una tromba da una custodia ma quando prova un accordo, viene redarguito.
-Lei ci toglie la concentrazione se ne vada da un’altra parte e lo faccia terminare-redarguisce con tono duro una signora.
L’uomo stupito accetta di riporre il suo strumento e si aggrega agli altri presenti.
Il mimo, a cui non è sfuggito questo episodio, sorridendo s’inchina e quando cerca di rialzarsi afferra la sua gola, spalanca la bocca e sbarra gli occhi che si annebbiano; non vede oltre ma ripete gesti consueti. Dietro la sua maschera adesso c’è solo il vuoto prodotto dal desiderio di mettere insieme, per un giorno, il pranzo con la cena.
La gente è come rapita ed alcuni addirittura aprono la bocca e ne copiano le contorsioni che stanno diventando penose quando il mimo si sente mancare le forze ma lui con lentezza si siede composto e gradualmente si corica su un fianco; alza le testa e sorride prima di reclinarla esanime.
Ha vinto la sua scommessa di coinvolgere i presenti che incapaci di esprimere una comprensione oltre la sua maschera mentre si allontanano gli gettano degli spiccioli nel suo cappello.
Il musicista scavalcandolo prende il suo posto.